Il primo novembre 2025, Capizzi ha smesso di essere solo un paese. È diventato un grido. Un vuoto. Una domanda che non trova pace: com’è possibile che un ragazzo di sedici anni venga ucciso per errore, davanti a un bar, con un colpo di pistola sparato da un’arma con matricola abrasa?
Giuseppe Di Dio non era un bersaglio. Era un figlio, un amico, uno studente. Era parte viva di una comunità che oggi si scopre vulnerabile, ferita, arrabbiata. E ha ragione a esserlo.
Da criminologa, so che la violenza non esplode mai all’improvviso. È un processo. Un accumulo di segnali ignorati, di tensioni normalizzate, di silenzi colpevoli. L’uso di un’arma clandestina, con matricola abrasa, non è un gesto impulsivo: è la prova di un’intenzione, di una cultura della sopraffazione che si muove nell’ombra e si nutre dell’impunità.
Quando un padre e due figli si muovono insieme per regolare un presunto torto con una pistola, siamo davanti a una trasmissione intergenerazionale della violenza. Non è solo un fatto di cronaca: è un fallimento educativo, sociale, istituzionale.
La morte di Giuseppe ci impone una riflessione morale profonda: quanto vale la vita di un ragazzo? Quanto vale il diritto di stare in piazza, di ridere con gli amici, di crescere senza paura?
La giustizia penale farà il suo corso. Ma la giustizia morale — quella che riguarda tutti noi — richiede di più: richiede memoria, responsabilità, cambiamento. Non possiamo archiviare questa tragedia come “errore di persona”. Perché l’errore più grave sarebbe dimenticare.
In Italia, le armi non dovrebbero circolare con questa facilità. Eppure accade. Le matricole vengono abrase, le pistole passano di mano in mano, e la violenza si insinua anche nei luoghi che credevamo sicuri. Serve una risposta forte, non solo repressiva ma culturale:
* Educazione alla non violenza, fin dall’infanzia.
* Controlli più rigorosi su armi e contesti familiari a rischio.
* Presenza attiva dello Stato nei territori, non solo dopo le tragedie.
* Spazi di ascolto per i giovani, prima che il disagio diventi devianza.
E poi c’è la voce dei genitori.
Quella sera, molti figli erano lì, accanto a Giuseppe. Ragazzi che si sono salvati per caso, che hanno visto, che hanno corso, che ora non riescono a dormire. E con loro, ci sono madri e padri che da giorni non chiudono occhio. Che si chiedono: “E se fosse toccato a mio figlio? E se quel proiettile avesse preso lui?”
Questa non è paura. È rabbia. È la consapevolezza che qualcosa si è rotto. Che non basta più dire “Capizzi è un paese tranquillo”. Che non possiamo più affidarci alla fortuna. Che la sicurezza dei nostri figli non può essere una scommessa.
I genitori di Capizzi non chiedono vendetta. Chiedono verità. Chiedono che nessuno osi più dire “era un errore”. Perché quando si spara in mezzo a dei ragazzi, non esistono errori: esiste solo disprezzo per la vita.
Giuseppe non è un numero. È un nome, un volto, una storia spezzata. E ogni volta che ci indigniamo senza agire, ogni volta che ci abituiamo alla violenza, lo tradiamo.
Capizzi ha proclamato il lutto cittadino. Ma il vero lutto sarà se non sapremo trasformare questo dolore in impegno. Se non sapremo dire, con forza e con amore: mai più.
Samanta Signore
Criminologa, Avvocato e Specialista in Investigazioni Private
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