Una mattinata di commozione e dolore quella vissuta oggi, lunedì 3 novembre, all’IIS Fratelli Testa di Nicosia. Nella sede dell’istituto, alla presenza della dirigente scolastica, dei rappresentanti d’istituto e di consulta, la comunità studentesca ha voluto ricordare Giuseppe Di Dio, il sedicenne ucciso a Capizzi nella sera del primo novembre. Un momento di raccoglimento che è diventato un grido di dolore collettivo, di rabbia composta, di richiesta di giustizia.
“Una tragedia ha colpito la nostra comunità, portandoci via un ragazzo, un sorriso, una speranza. Un giovane pieno di vita, di sogni, di futuro“, hanno esordito gli studenti nel loro intervento. Parole semplici, devastanti nella loro verità. Giuseppe non era un nome sui giornali, era un compagno di banco, un amico, un sedicenne con tutta la vita davanti.
La testimonianza più toccante è arrivata da Gaetano Taormina, rappresentante della Consulta Provinciale Studentesca, che ha ricostruito con lucidità dolorosa una cronaca annunciata: “Dicevano che Capizzi è un paese tranquillo. Ieri ho sentito dire che questi due fratelli giravano con il coltellino svizzero in tasca, ma vabbè Capizzi è un paese tranquillo“. Una litania che si ripete, segnale dopo segnale ignorato, denuncia dopo denuncia rimasta senza risposta. Fino alla sera fatale.
“Giuseppe non aveva fatto nulla, non aveva nessuna colpa. Si è trovato solo nel posto sbagliato nel momento sbagliato“, continua Taormina con voce spezzata. “Quella sera voleva fare solamente un giro per divertirsi. Il fatto che non sia più tornato a casa mi rabbrividisce. Giuseppe ha salutato sua mamma, promettendole di tornare presto, ignaro che quella sarebbe stata l’ultima volta“.
Chi c’era quella sera porta dentro una ferita che non si rimarginerà. “Non so neanche come spiegare quello a cui ho assistito“, racconta un altro studente. “È una di quelle cose che ti rimangono dentro, che non te le togli più dalla testa. Eravamo tutti lì, ragazzi, bambini, adulti. Una sera normale nel nostro paese. Ridevamo, chiacchieravamo, senza pensare che in pochi minuti tutto sarebbe cambiato per sempre“.
Gli spari, la corsa disperata, le urla. E Giuseppe che cercava di salvarsi, di arrivare vivo, prima di chiudere gli occhi per sempre poco dopo le 22:30. “Quel proiettile non era nemmeno per lui“, sussurra chi era presente. “Ma è stato lui a pagarci la vita“.
Le parole degli studenti sono un atto d’accusa: “I colpevoli della tua morte non sono soltanto i tuoi assassini, ma coloro che hanno chiuso gli occhi, hanno ignorato e minimizzato sulla situazione“. Ogni volta che qualcuno denunciava, la risposta era sempre la stessa: “Non possiamo arrestarli per fesserie“. Fesserie. Come se quelle fesserie non fossero campanelli d’allarme. Come se bisognasse per forza aspettare il morto.
“E il morto, purtroppo, è arrivato“, conclude amaramente uno studente.
Le testimonianze si chiudono con messaggi diretti a Giuseppe, messaggi di un’intimità straziante. “Non riesco a credere che tu non ci sia più, che tutto sia finito così, all’improvviso“, scrive un amico. “Hai lasciato un vuoto enorme. Ma dentro quel vuoto rimane tutto ciò che eri: la tua forza, la tua ironia, la tua voglia di vivere“.
Capizzi non è più un paese tranquillo. È un paese avvolto nel silenzio, segnato da una tragedia che si poteva evitare. E i ragazzi che hanno vissuto quella sera sono rimasti tutti segnati: chi ha gli incubi, chi non riesce più a dormire. Hanno perso la spensieratezza, la sicurezza, la fiducia.
“Il tuo sorriso, la tua voce, la tua bontà resteranno per sempre con noi“, promettono i compagni. “Hai pagato con la vita per colpa di altri, ma per tutti noi resterai il simbolo di ciò che non dovrà mai più succedere“.
Oggi la comunità studentesca nicosiana ha pianto Giuseppe. Ma oltre le lacrime, resta una domanda che nessuno può eludere: fino a quando si continuerà a ignorare i segnali, fino a quando si continuerà a chiamare “fesserie” ciò che annuncia tragedie?
Giuseppe Di Dio non tornerà più a casa. E questo peso grava su tutti: sulle istituzioni che non hanno agito, su chi sapeva e ha fatto finta di niente, su un sistema che ha fallito nel proteggere la vita di un ragazzo di sedici anni.
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