Storia di stragi e servizi segreti nell’Italia della seconda metà del ‘900 nel libro di Benedetta Tobagi

Condividi l'articolo su:

A me piace rileggere libri, in particolare i grandi romanzi della letteratura, che ho già letto tempo fa. Se è passato molto tempo, la seconda lettura mi suscita sensazioni e riflessioni che non avevo provato quando l’ho letto la prima volta. Ed è quello che mi è accaduto rileggendo “Le illusioni perdute” di Honoré de Balzac, dopo molti anni quando ancora a Troina c’era don Mariano Scorciapino che vendeva nella sua bottega di utensileria di via Garibaldi anche i grandi romanzi della letteratura mondiale pubblicati in edizione economica dalla Sonzogno. Rileggendo questo romanzo del grande scrittore francese della prima metà dell’Ottocento, mi sono soffermato a riflettere un po’ sua queste frasi: “Ci sono due storie: la storia ufficiale, menzognera, quella che si insegna, la storia ad usum delphini; e la storia segreta, nella quale si ritrovano le vere cause degli avvenimenti, una storia vergognosa”.

Queste stesse espressioni di Balzac di due secoli fa, le rileggo oggi anche nel bel libro di Benedetta Tobagi “Segreti e lacune. Le stragi tra servizi segreti, magistratura e governo”. Delle stragi che hanno insanguinato l’Italia della seconda metà Novecento, c’è una storia segreta di non facile ricostruzione perché gli ideatori hanno agito senza lasciare in giro tracce o documenti che a loro conducessero magistrati e storici. Storici e magistrati hanno accertato che la manovalanza di quelle stragi era fornita dai gruppi neofascisti, come Ordine Nuovo, Fronte Nazionale e Avanguardia Nazionale. Che quelle stragi siano state pensate in ambienti impenetrabili preoccupati dello spostamento a sinistra della politica e della società italiana nella seconda metà del Novecento, lo fanno pensare alcuni fatti. In ambito NATO è elaborata la dottrina militare “guerra non ortodossa”, che fu oggetto di discussione pubblica nel 1965 in Italia all’Hotel Parco dei Principi nel convegno organizzato dall’Istituto di Studi Militari “Alberto Pollio”.

A quel convegno intervennero uomini dei servizi segreti, giornalisti e militanti di estrema destra, tutti accomunati da un viscerale anticomunismo, che compariranno negli anni successivi come artefici stragi. La dottrina della guerra non ortodossa prevedeva forti legami con i gruppi di estrema destra eversiva ai quali affidare il compito di organizzare le stragi per arrestare lo spostamento a sinistra della politica e della società italiane. William Colby, che in quegli anni era a capo della Cia, nel suo libro autobiografico “La mia vita nella Cia”, scrisse che “l’Italia è stata per la Cia il più grande laboratorio di manipolazione clandestina”. A partire dell’amministrazione Kennedy, gli Usa lo sapevano, ma non sostennero mai la prospettiva di un golpe militare ‘alla greca’, per l’Italia dove c’era il più forte Partito comunista d’Occidente, che avrebbe condotto ad una guerra civile. Gli Usa avevano bisogno per l’Italia della massima stabilità possibile. L’Italia era, e lo è ancora la sua portaerei naturale nel Mediterraneo.

Gli Usa puntavano ad una stabilizzazione neocentrista, non al golpe. Che di questa “guerra non ortodossa” sapessero, e ne erano ne erano probabilmente anche sostenitori attivi, anche settori non trascurabili della politica e della società italiana lo si intuisce da alcune dichiarazioni di Aldo Moro, dirigente di rilievo nazionale e di alto profilo intellettuale della Democrazia Cristiana, e del generale Vito Miceli, che in quegli anni fu capo del SID (il servizio segreto militare italiano). Moro avvertiva in quegli anni che in Italia c’era “un’area di conservatorismo sociale e politico chiuso tradizionalista, legato alla continuità degli assetti di un’economia fondata si equilibri classici di sottoconsumo e sulla compressione del tenore di vita delle masse, timoroso di ogni rischio di cambiamento come anticamera della rivoluzione”. Il generale Miceli, messo a confronto con l’ex ministro della difesa Mario Tanassi, durante il primo processo di piazza Fontana, sbottò dicendo:” Smettiamola di considerare il Sid come una ditta privata”. Tra i soci di quella ditta, che privata non era, ce n’erano anche di quelli che ricoprivano ruoli importanti nelle istituzioni pubbliche e nella società. Erano quelli rappresentavano quell’area di conservatorismo sociale e politico chiuso tradizionalista sul quale puntava il dito Moro, che si nasconde nella storia segreta vergognosa di cui parlava Balzac.

Silvano Privitera



Condividi l'articolo su: